Legittimità della presunzione di attribuzione ai soci di utili extracontabili nel caso di società di capitali a ristretta base partecipativa.
Premesse
Se Per le società di persone la tassazione avviene inderogabilmente per trasparenza, ossia per diretta imputazione ai soci dei ricavi societari in ragione della propria quota partecipativa; per le società di capitali tale regime, ai sensi degli artt. 115 e 116 Tuir, è opzionale e solo in presenza di determinati requisiti.
Inoltre, sebbene il nostro codice civile riconosce, a differenza delle società di persone, alle società di capitali una personalità giuridica e un’ autonomia patrimoniale perfetta, costituendo soggetti autonomi e distinti rispetto alle persone fisiche o giuridiche dei propri soci, la giurisprudenza di merito e di legittimità, maggioritaria, ritiene comunque applicabile alle stesse, se a ristretta base partecipativa, la presunzione di distribuzione degli utili ai soci, tipica delle società di persone.
Il nuovo art.7 comma 5 bis del D.lgs 546/1992
Detto ciò, l’introduzione del comma 5-bis all’art 7 del D.lgs 546/1992 ad opera della legge n. 130/2022 suscita notevoli perplessità in merito all’utilizzo del sopracitata presunzione da parte dell’amministrazione finanziaria nei confronti di società di capitali a ristretta base sociale.
Invero con l’introduzione del nuovo comma il legislatore ha introdotto finalmente, dopo molto tempo, anche nell’ambito tributario, una nuova regola di giudizio in merito alla ripartizione dell’onere della prova, andando così ad appianare una lacuna normativa, che a dire il vero fu solo parzialmente colmata dalla Suprema Corte di Cassazione con la nota sentenza n. 2990 del 1979 ove ha ritenuto applicabile l’art 2697 c.c. alle liti fiscali; in applicazione del quale l’onere della prova veniva riposto per lo più, ma non solo, sul contribuente, andando così a superare la vecchia presunzione di legittimità degli atti amministrativi.
In particolare il nuovo comma 5 bis dell’art 7 del sopracitato decreto legislativo stabilisce che “l’amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato. Il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni. Spetta comunque al contribuente fornire le ragioni della richiesta di rimborso, quando non sia conseguente al pagamento di somme oggetto di accertamenti impugnati”; in altre parole l’anzidetta disposizione pone a carico all’Amministrazione finanziaria un onere probatorio più pregnante rispetto al passato, ossia quello di fornire in giudizio le prove dei fatti contestati in maniera circostanziata e puntuale.
Tale norma si pone dunque, fisiologicamente, in contrasto con la predetta presunzione posto che l’amministrazione finanziaria deve provare le ragioni di fatto e diritto che stanno alla base dell’atto impositivo; sicché ci si chiede in che misura quest’ultima possa essere utilizzata dall’amministrazione finanziaria così come delineata dalla giurisprudenza di legittimità e di merito.
Contenuto e criticità della presunzione di distribuzione di utili occulti
Infatti la suddetta presunzione trova applicazione ogni qual volta che l’amministrazione finanziaria accerti maggiori utili o costi inesistenti nei confronti di una società di capitali a ristretta base partecipativa, in tal caso si presume che il maggior reddito accertato è stato ripartito tra i soci in ragione della propria quota di partecipazione e tutto questo sulla base della regola di esperienza secondo la quale la ristretta base societaria implicherebbe una maggior solidarietà, complicità e condivisione di intenti tra i soci nonché una maggior conoscibilità degli affari sociali e, in ultimo, maggiori opportunità di controllo sull’operato altrui.
Tale presunzione si risolve, ahimè, nell’assenza di alcun onere probatorio in capo all’amministrazione finanziaria, la quale le basterà accertare maggiori redditi in capo alla società nonché che quest’ultima sia a ristretta base partecipativa per poter fondare l’accertamento nei confronti dei soci; ma vi è di più, tale presunzione pone un inversione dell’onere della prova a sfavore del contribuente il quale dovrà dimostrare il fatto specifico e negativo che gli utili non dichiarati sono stati reinvestiti nell’attività d’impresa o comunque accantonati.
Tralasciando, le non meno rilevanti, questioni inerenti alla legittimità della sopracitata presunzione, la quale, sebbene di origine giurisprudenziale, impone un illegittima inversione, in forma specifica dell’onere probatorio, la quale sarebbe ammissibile solo in presenza di presunzioni legali e quindi di una disposizione normativa che la preveda; nonché le questioni inerenti alla logicità della stessa, posto che la prova liberatoria in capo al debitorie si risolverebbe nella conferma dei rilievi effettuati nei confronti della società attinta dall’accertamento presupposto a quello dei soci.
Altresì, tralasciamo anche le questioni relative al rischio di violazione del divieto di doppia presunzione, laddove il maggior reddito accertato in capo alla società è stato determinato con metodi induttivi; per soffermarci sul nodo gordiano della questione e di questo breve articolo ossia se la pretesa tributaria contenuta negli avvisi di accertamento notificati ai soci, fondata sul sopracitato ragionamento induttivo, possa dirsi in sintonia con l’anzidetto art 7 comma 5 bis, in altre parole, se idoneo a dimostrare le ragioni di fatto e di diritto della pretesa impositiva in maniera precisa e circostanziata.
La giurisprudenza di Legittimità e la presunzione di distribuzione di utili occulti
La giurisprudenza di Legittimità e mi riferisco, alle prime ordinanze emesse dalla Sez. V della Suprema Corte, ossia alle nn. 31878 e n. 31880 del 2022, con le quali i Giudici del Palazzaccio non hanno riconosciuto alcuna portata innovativa all’art 7 comma 5 Bis del D.lgs 546 del 1992, chiarendo che la “la nuova formula legislativa non stabilisce un onere probatorio diverso e più gravoso rispetto ai principi già vigenti in materia”; e in coerenza di ciò i giudici di legittimità hanno continuato a ritenere legittimo l’applicazione del ragionamento presuntivo de quo, ossia ritenendo, come in passato, legittima applicazione della presunzione di distribuzione occulta di utili ogni qual volta venga accertato un maggior reddito in capo alla società a ristretta base partecipativa e i soci non diano prova negativa della mancata distribuzione degli stessi, in altri termini, ogni qual volta che i soci non abbiano fornito la prova liberatoria di aver reinvestito gli utili nella società.
La giurisprudenza di merito e la presunzione di distribuzione di utili occulti
Orbene se per i giudici di legittimità l’art 7 comma 5 bis non ha introdotto alcun innovazione in merito all’onere probatorio in capo all’amministrazione finanziaria ritenendo applicabile nei termini sopracitati la presunzione in esame, alcune Corti di merito, hanno invece annullato, richiamando l’art 7 comma 5 bis, alcuni avvisi di accertamento notificati nei confronti dei soci e fondati sul predetto ragionamento presuntivo.
Più specificatamente queste Corti di merito, ossia la Corte di Giustizia Tributaria di primo Grado di Miano nonché la Corte di Giustizia Tributaria di primo Grado di Reggio Emilia e quella di secondo Grado per l’Emilia Romania, hanno ritenuto la presunzione de quo inconciliabile con l’art 7 comma 5 Bis, riconoscendo a quest’ultimo un carattere innovativo e, diversamente da quanto sostenuto dai giudici di Legittimità, la previsione di un più gravoso onere probatorio a capo dell’Amministrazione finanziaria, qualificando la presunzione de quo alla stregua di una mera probabilità comportamentale e da qui la sua inidoneità a giustificare in termini precisi e puntuali l’accertamento di distribuzione di maggior reddito ai soci.
Essenziale per tale giurisprudenza di merito è la prova rigorosa della distribuzione di utili occulti da parte dell’Ente accertatore.
Conclusioni
Orbene se per la giurisprudenza di legittimità l’applicazione della presunzione di distribuzione di utili occulti, in occasione dell’accertamento di maggiori ricavi a capo della società, se questa a ristretta base partecipativa, è da ritenersi legittima, ove non via sia la prova negativa da parte dei soci di aver reinvestito gli utili nell’attività d’impresa, non riconoscendo dunque alcun carattere innovativo all’art 7 comma 5 bis del D.lgs 546/1992; di contro alcune Corti di Merito hanno annullato avvisi di accertamento fondati sul predetto meccanismo presuntivo, ritenendo quest’ultimo inconciliabile con il novellato art. 7 comma 5 bis, in altre parole non ritenendo la presunzione de quo sufficiente a provare in maniera circostanziata e puntuale gli elementi di fatto e di diritto posti a fondamento dell’accertamento di distribuzione di utili occulti.
A mio avviso la presunzione de quo come elaborata dai giudici di legittimità, ove non suffragata da ulteriori elementi istruttori a quelli tradizionalmente allegati dall’Agenzia delle Entrate, non è coerente con il novellato art 7 comma 5 bis, in altre parole è da ripudiare ogni automatismo applicativo, laddove vengano accertati solo maggiori ricavi a capo della società a ristretta base partecipativa, essendo di contro necessario, in coerenza alla regola probatoria di cui all’art 7 comma 5 bis nonché alla natura relativa ex art. 2729 c.c. della presunzione de quo, ulteriori elementi probatori che insieme alla regola d’esperienza a base del presunzione, possano dimostrare in maniera puntuale e circostanziata, con un attendibilità prossima alla certezza, la distribuzione occulta degli utili ai soci.
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